Da una pagina del libro di latino, lo sguardo profondo ed enigmatico di un piccolo volto d’inchiostro – un volto appena disegnato – mi cattura e mi porta con sé .
Tutto sfuma, si ritira e poi si eclissa, nello spazio dell’aula attorno a me: vicinanze, corpi, voci, contingenze. La presenza più vivida e reale è la magia di un volto indecifrabile, che mi ha completamente catturata. Il tratto è rapido, freschissimo, sicuro. Ha la perfezione rarefatta di una miniatura medievale. Ha la potenza dell’evocazione nella dimensione di un cammeo. I suoi occhi – di un’intensità enigmatica – bucano lo spazio della pagina con forza e tuttavia con levità.
Sorride, quel volto? Non proprio. E’ serio, malinconico? Neppure. Si concede? Si nega? A cosa pensa? Come il suo genere – asessuato – l’espressione del volto di inchiostro, quasi in bilico sopra uno stelo, sembra restare un mistero. Ma mi invita a seguirlo, questo sì. Verso dove? Non lo so, ma io lo seguo. Accetto la sfida dell’enigma e incomincio a fantasticare, traducendo in parole quei voli.
Sbuelz e Leita, che state facendo? La voce irritata della Prof si ripete e si alza di tono, ma ci mette comunque un tempo strano per arrivare fino a noi e spezzare l’incanto del momento.
Io mi sento costretta a dire Niente. E forse ad aggiungere un mi scusi.
Mi sento costretta a planare dalla poesia alla prosa quotidiana, dalla magia di quel ritratto a un trattato di Cicerone. Richiudo in fretta il diario sopra un piccolo volto di inchiostro che si è ficcato dentro i miei pensieri con la forza di una passione. Incauta, come tutte le passioni.
E’ a questo che oggi ripenso, mentre osservo e interrogo di nuovo due intensi ritratti di Laura. Questa volta sono grandi, affiancati, liberi di parlarmi fino in fondo, di rispondere alle mie domande o di mantenersi indecifrabili, di sfuggire di nuovo ai miei perché. Questa volta, appesi vicini su una parete della mia casa, li posso osservare –e indagare– con tutta la calma del mondo: niente più sensi di colpa, niente più sguardi segreti e clandestini.
Questa volta non serve più difendersi: mi lascio catturare fino in fondo e trasportare lontano.
E mi accorgo che i volti di Laura ti avvolgono come spirali. Avvitamenti morbidi e sinuosi, come tappe di un viaggio emozionale.
Prima tappa: l’unione dei contrari in un’ideale armonia.
I ritratti di Laura fanno questo: compongono le dicotomie, ricuciono i doppi in unità. Maschile e femminile, terra e cielo, la fedeltà della prosa e l’onirico della poesia. La concretezza e l’ariosità. L’astratto, o l’angelico, e il carnale. E, ancora: occidente e oriente, il vicino e il lontano, il qui e le seduzioni di un altrove. Un altrove che si rivela attraverso elementi suggestivi: morbidi turbanti che ricadono, esotiche fogge turchesche, dorsi di mani affilate e tatuate in filigrana dall’hennè.
Seconda tappa: un dialogo serrato tra realismo e astrazione, tra cura minuziosa dei dettagli e assoluta purezza formale. Tra figurativo e surreale. Le forme a cui Laura dà vita hanno l’esattezza del realismo e la fuga da un realismo troppo angusto, la perfezione del tratto ma anche un trascendere quel tratto per trasformarsi in evocazione di altri mondi e di altre dimensioni, di altre storie possibili o impossibili, di possibili o impossibili identità. Svelano costruzioni puntigliose ma anche vocazioni all’inconsueto, tensioni verso il fiabesco, amore per un’atmosfera magica tradotta in poesia dei colori. I volti onirici di Laura tradiscono un’immaginazione incontenibile e un personalissimo tratto: ricordano l’estro esuberante di Cosmè Tura e la preziosità rarefatta della pittura bizantina.
Terza tappa: l’alchimia dei colori.
Mi avvicino ai due ritratti, osservo ancora. I due volti, campiti a matita, hanno i blu elettrici e profondi dei cieli ripuliti dalla pioggia, i violacei turchesi provenzali, tutta la gamma dei verdi vestiti dall’erba appena nata sulle colline friulane. In prospettiva, più lontano, spiccano gli ocra, i gialli delicati, i delicatissimi aranciati. Gli sfondi, fortemente evocativi, sembrano dialogare coi primi piani. La persistenza di un colore dominante cede a una polifonia di toni, a una narrazione di sfumature. L’uso delle matite suggerisce forme sussurrate, morbide, mai assertive. La scelta apparentemente facile di pastelli che ricordano l’infanzia in realtà si traduce in una sfida: campiture stese più e più volte, in modo esigente e compulsivo, fino a strappare alle tinte la tastiera più completa della luce, la gamma di ogni chiaroscuro, la trasparenza o la corposità: la densità di una stoffa che scende a coprire le spalle, la grana perfetta della pelle su una tempia sfiorata da una ciocca, il riverbero d’inchiostro di uno sguardo.
E lo sguardo è anche l’ultima tappa. La più potente, per me.
Perché a catturarti sono gli occhi, nei volti enigmatici di Laura. La forza dello sguardo, indecifrabile, ti avvolge, ti incanta, ti trattiene. Nell’equilibrio formale e nell’essenzialità della postura che contraddistingue i ritratti, lo sguardo sembra sempre trasformarsi in un magico punto di fuga. E’ da quello sguardo che si parte, ed è a quello che infine si ritorna. E’ uno sguardo che insinua domande, e che apre varchi inattesi verso altre possibili realtà. Realtà radicate nel presente ma forse invisibili ai più? Realtà immerse in passati remoti? Legate a emozioni personali o al senso di un esistere comune, di una comune appartenenza, di un orizzonte condiviso?
Ecco, i ritratti di Laura fanno sempre così, almeno con me: mettono in moto domande. Suggeriscono nuove prospettive. La forma si fa introspezione, l’emozione apre alla profondità.
Sbuelz e Leita, che state facendo?
Io e Laura sediamo vicine. Abbiamo quattordici anni. Stessa età, stessa aula, stessa scuola. Forse stessa distrazione un po’ colpevole, legata a un’immaginazione che ci porta invariabilmente altrove.
Cerchiamo un senso, Prof. Ecco. Cerchiamo.
Perché l’arte – e la letteratura – in fondo non fanno che questo: si sforzano di trovare un senso al nostro essere qui e ora, al mistero di questo nostro andare.
Antonella Sbuelz