27 Settembre 2021
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18 Novembre 2018
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17 Dicembre 2018
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18 Settembre 2018
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4 Aprile 2019
di Anna Foa
Il romanzo La ragazza di Chagall di Antonella Sbuelz (Udine, Forum, 2018, pagine 240, euro 17,50) è intessuto di storia, complesso nel dipanarsi dei fili che legano fra loro i diversi personaggi e nel rapporto tra i diversi tempi in cui si dispiega, scritto con maestria e rigore. Al suo centro, il viaggio in nave verso l’Argentina nel 1940, in cui si incontrano Amalia e Folco: lei un’adolescente che il padre accompagna in Argentina per lasciarla a una zia mai conosciuta, lui un giovane di poco più vecchio che accompagna la sorellina Tilde per lasciarla a dei parenti e sottrarla ai rischi della guerra che incombe.
Tanto Amalia che Folco sono ebrei, lei figlia di matrimonio misto. Sua madre, “ariana”, è però confinata su un’isola per antifascismo. Il padre che l’accompagna, ebreo, vive con rifiuto e timore la sua identità ebraica e ha rotto i rapporti con quella moglie confinata che ha anteposto la politica alla vita in famiglia. La guerra incombe sull’Europa e su quell’Italia che la giovanissima Amalia è costretta a lasciare. I suoi nonni moriranno nella Shoah, Folco sarà deportato e tornerà ridotto all’ombra di se stesso. Non parlerà, lui che voleva diventare scrittore, non racconterà. Avranno un figlio, lui e Amalia, nella vita del dopo, il figlio che nell’ultima scena del libro, nel maggio del 2018, visiterà la tomba recente di Amalia con la zia Tilde, la bambina della nave.
E ci sono altri scenari raccontati o solo accennati: l’Argentina di Videla, in cui Tilde perderà un figlio che ricorderà con le altre madri e nonne nella Plaza de Mayo, e il Friuli degli anni Venti, con la miseria e il dolore del mondo contadino, e la domestica Isa, violentata e umiliata. C’è anche un omicidio perché il libro ha anche le movenze di un giallo, e si disvela poco a poco, senza clamore, quasi per suggestioni silenziose. E ha anche le movenze di una memoria, più che di un romanzo, e chi legge si immagina che di persone reali si tratti, e che la voce narrante, quella di Amalia, sia quella che l’autrice presta a sua madre.
Luci e ombre: luminose quasi tutte le figure femminili del libro, da Amalia, cristallina, consapevole benché giovanissima della differenza fra bene e male, a Isa, che sopporta con dignità violenze e sopraffazioni per proteggere la sorella Bettina, fino a perderne la ragione, alla nonna di Amalia, Lea, che la persecuzione spinge a riaffermare il suo ebraismo, fino a Dora, la femme fatale che sulla nave intreccia una storia di passione con il giovane Fulco. E ancora, la madre di Fulco, che protegge la cameriera Isa e l’aiuta; e Bettina, che diventa un’oppositrice del fascismo e che ritroviamo al confino, con Luisa.
Più ambigui i personaggi maschili, come Furio, il padre di Amalia, terrorizzato dalla sua identità ebraica e da quella madre che invece la riafferma e ostile alla moglie Luisa, spedita al confino perché denunciata da una vicina, Vera, perché accoglieva a casa sua gli sloveni perseguitati dal fascismo. Fino al personaggio più odioso di tutti, il patrigno violento di Isa e Bettina, che ritroveremo più tardi sotto altre vesti nel romanzo.
La grande storia e la storia quotidiana si intrecciano: il confino a Ventotene, con i militi violenti, le camerate, le amicizie, le solidarietà, la liberazione alla caduta del fascismo, nell’agosto 1943. Una liberazione che preluderà tuttavia ad altri lutti, ad altre tragedie ancora più grandi. Trieste, quando Mussolini proclama nel 1938 a un’immensa folla le leggi razziali e Luisa da lontano, nascosta nella folla, spia Amalia bambina, portata dalla maestra a osannare il “duce”, e teme che quell’oratoria roboante la abbia convinta, come le sue compagne che applaudono. E la vede invece dritta senza applaudire, fino a che la maestra non si accorge del suo dissenso e la colpisce con un manrovescio. Ha capito, si dice Luisa, fiera della figlia e felice che le assomigli. Quella figlia che ricorda una ragazza in volo di Chagall. E c’è un diario, scritto sulla nave da quella bambina, perduto e ritrovato attraverso un ragazzo pakistano, che riporta al figlio la scrittura della madre e il racconto del suo viaggio verso l’Argentina.
Nella sua postfazione Gabriele Nissim legge questo romanzo soprattutto come un saggio sulla condizione umana durante il fascismo: un tempo scardinato, in cui si era accolta con favore e consenso la fine della democrazia e l’avvento di nuove barbarie «pensando di ottenere la chiave magica per la felicità e un futuro radioso». Un tempo tuttavia riscattato, allora, da scelte coraggiose, battaglie morali, anche se percorso da conflitti e violenze. Da quelle macerie siamo usciti, come ne sono usciti Amalia e Folco, pur pagando prezzi enormi. E speriamo che Amalia, la ragazza di Chagall, continui per sempre a volare alta sopra di noi, libera e fiera.
1 Marzo 2019
“Sono tanti i tipi di confine in questo libro, tra pace e guerra, tra violenza e civiltà, tra incanto adolescenziale e vita adulta, tra perdono e colpa(…) Ci sono pagine indimenticabili (…) L’intreccio della storia appassiona, con quattro esistenze destinate a incrociarsi (…) C’era bisogno di uno sguardo di donna sugli ultimi ottanta anni di storia europea per leggere e cogliere la forza del “confine” in senso aperto, di umana fratellanza.
18 Novembre 2018
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15 Novembre 2018
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8 Novembre 2018
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21 Ottobre 2018
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20 Agosto 2017
Diversi volumi in prosa e alcune raccolte di poesie: questo il prezioso carnet di una scrittrice raffinata come l’udinese Antonella Sbuelz.
Una scrittrice come ha ricordato tempo fa su queste pagine Mario Blasoni, che «ha ripercorso, e rivissuto, la storia delle nostre genti – friulani, veneti, giuliani, istriani – nel corso del Novecento», in quelli che il critico Mario Turello ha definito, «non racconti o romanzi storici, ma memoriali, nel senso che il termine ha nella liturgia ebraica: ancor più che memoria, esperienza forte, responsabile, sacrale».
Dopo un esordio nel 1997 con una raccolta di racconti, “Amori Minimi”, Antonella Sbuelz ha, infatti, affrontato nei suoi quattro romanzi successivi pagine della nostra storia recente e meno recente, ma sempre con uno sguardo all’oggi.
Dal duro inverno del 1944-’45, quello tragico e terribile dell’occupazione tedesca, raccontato in “Il nome nudo”(2001) alle altrettanto tragiche vicende del secolo breve da Caporetto agli anni di piombo de “Il movimento del volo”(2007).
Per non parlare della Fiume di Gabriele D’Annunzio ricostruita in “Greta Vidal”(2009) come «la città che attraeva spiriti liberi e ribelli, intellettuali, poeti, artisti e riformisti che arrivano da ogni angolo d’Europa. Rappresentava il luogo dove in maniera democratica si discuteva di tutto, si poteva divorziare, le donne votavano e le carceri avevano subito una riforma».
Un pendant tutto al femminile dell’altro straordinario racconto sulla Fiume dannunziana, trasgressiva esagerata e godereccia, di Giovanni Comisso ne “Il porto dell’amore”.
Il romanzo più recente di Antonella Sbulz è dedicato invece agli ultimi giorni di Venezia prima della definitiva cancellazione a Campoformido della Serenissima per opera di Napoleone.
S’intitola “La fragilità del leone” ed è stato pubblicato recentemente nella collana (s)confini dell’editrice Forum di Udine.
Un romanzo, questo che, come ha scritto Paolo Medeossi ha rappresentato «un luminoso ritorno alla narrativa di Antonella Sbuelz, dopo una recente raccolta poetica (“La misura del Vicino e del Lontano”, Raffaelli 2106), e in cui l’atmosfera fra resa e rassegnazione è quella evocata nelle pagine nieviane delle “Confessioni” (…) un romanzo che va ad alimentare il filone letterario che lega il Friuli agli scenari di Venezia, perché gli autori vanno a cercarvi l’anima segreta delle cose guardando oltre la facciata consunta di palazzi e storie note. “La fragilità del leone” racconta fermenti di ieri e di sempre, come i sentieri insoliti disegnati dall’amore».
Udinese di nascita, ma gli Sbuelz vengono da Tricesimo, come precisava nel suo articolo Blasoni, Antonella, ha sempre amato i libri: «Ero una bambina con sempre un libro in mano – scrive nel suo profilo web – ed erano i libri i regali d’obbligo che ricevevo. Ho cominciato a scrivere versi e racconti brevi che ero ancora alle elementari». Completa il suo impegno letterario con l’attività di insegnante, italiano e storia all’istituto Malignani: “Le sue grandi passioni”, cosí ancora ha scritto di lei Mario Blasoni, sono le materie che insegnava, nello stesso istituto, una sua indimenticabile collega, la scrittrice e poetessa Novella Cantarutti, oltre che – ci si perdoni il bisticcio – la “materia prima” per i suoi lavori letterari. La storia e il bello scrivere, appunto.
Un’attività, l’insegnamento che, confessa, «nonostante tutto (ed è un tutto non da poco) mi piace ancora, e molto: il contatto con i ragazzi è un continuo rimettersi in gioco. Sfianca ma rilancia ogni giorno nuove sfide».
Come quella di scrivere di storia «ma della parte in ombra del passato, la polvere finita sotto i tappeti (…) le sofferenze, le resistenze, i destini soggettivi dei tanti Toni e Meni, delle Marie e delle Teresine destinati troppo spesso all’invisibilità, per – e cita Carlo Ginzburg- vedere in una goccia il mare».
10 Novembre 2016
6 Febbraio 2007
18 Novembre 2013
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8 Febbraio 2009
29 Dicembre 2015
14 Settembre 2014
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